Curiosità

LA LEGGENDA VERA DEI CIAVELARES, I MERCANTI DI CAPELLI

Elva (Cuneo) – Alla fine dell’Ottocento i “piemontesi”, i primi raccoglitori di capelli in Italia a continuare una tradizione nata in Francia, arrivarono in Friuli. I “Cjavelars” – così li chiamavano in Friuli – pagavano bene, e chi abitava in montagna dove la miseria era più nera, era contento dell’affare. «Figlio di un cjavelar», si dice tuttora tra Codroipo, San Daniele e Tolmezzo, per insultare qualcuno con l’attribuzione di una paternità incerta. Un magistrato parruccone della Corte di Londra? Una “mademoiselle” francese? La moglie di un rabbino chassid in un villaggio della Polonia orientale? Che strada facevano le trecce raccolte? Qualche anno fa in una sperduta valle ai confini della Francia, ad Elva, è stato aperto un museo unico al mondo: il museo dei capelli. Elva per un secolo e mezzo era stato il baricentro internazionale del commercio di capelli. Il regno incantato de “li pelassiers”. «Aspetti che vado a prendere le chiavi», fa il cuoco della locanda occitana “San Pancrazio”, Edo Lorìa, cui è affidata la custodia del “Museo di pels”. Non passa molta gente a Elva, l’arrivo di visitatori fuori stagione è un evento, e si apre apposta per loro. Il museo sta in una casa ottocentesca di pietra e legno di larice aggrappata al pendio; la chiamano “Casa della Meridiana” per via dell’orologio solare sul muro maestro. La porta in abete si apre cigolando e il signor Raina Pietro, classe 1870, della borgata Chiosso Superiore, compare nel buio del seminterrato sullo sfondo di una foto ingiallita dal tempo.

Baffi, giacca e cravatta, orologio a taschino con catena d’ argento, si appoggia sul gomito destro a una stufetta in maiolica, e con la mano destra solleva un campione di capelli ondulati divisi per trecce e annodati assieme dalla parte della radice. Lo sguardo è serio, sabaudo, quasi militare; la mano ha il palmo verso l’alto e le dita sono aperte con una finta noncuranza che tradisce l’orgoglio di una professione e la fierezza di un benessere conquistato con ingegno e fatica. Accanto alla foto, i ferri del mestiere: i pettini per districare, gli spuntoni per cardare, i catini per la lavatura, lo zaino-armadietto da portare sulla schiena, con gli oggetti “galeotti” per incantare le femmine e convincerle al fatal baratto: merletti, gioie, pizzi e foulard. Fischia un po’ di vento tra la stalla e il fienile, la Casa della Meridiana è piena di spifferi e sussurri che arrivano dal profondo del tempo, le voci dei trapassati che «copavan lo pel de las femna per far de perrucas». «Ah se mi faceva pena tagliare le trecce alle belle ragazze!», ricorda l’elvese Daniele Mattalia, classe 1897, in una testimonianza di trent’anni fa raccolta tra i documenti del museo. «Il nostro problema – spiegò il cacciatore di chiome a Ines Cavalcanti, studiosa di cose occitane – era di lasciare sulla testa delle ragazze solo più una corona di capelli. Le ragazze di dieci, dodici anni piangevano ma le madri avevano bisogno di soldi e ci facilitavano il lavoro. Quante trecce ho tagliato a Udine! Pagavamo cinque o dieci lire per treccia, ma le lire di allora valevano più dei biglietti da mille di adesso”. Il miglior bacino di raccolta della merce era lì, tra Veneto e Friuli. In montagna, dove la miseria era nera e i prezzi d’acquisto migliori. Lì andavano i piemontesi, e lì le chiome erano anche più belle, perché il freddo e il parroco – tosti entrambi – obbligavano le ragazze a tenerle impacchettate nei fazzoletti, nascoste alla luce e agli occhi degli uomini. In Meridione i “pelassiers” non ci andavano nemmeno: i capelli delle “terrone” erano troppo setolosi per il mercato del Nord Europa; buoni al massimo per riempir cuscini.

Friuli e il Veneto avevano anche altri vantaggi: tante osterie per mangiare e buoni fienili per dormire. I raccoglitori di capelli non stavano mica in albergo. Viaggiavano in abiti di velluto, che si stropicciavano meno, e dopo cena chiedevano ospitalità ai contadini. Il loro materasso era il “paiòn”, e loro si infilavano vestiti in un sacco che portavano sempre con sé e li aiutava a non sporcarsi troppo. Pare che tutto sia cominciato per caso, alla fine del Settecento. La leggenda dice che due elvesi andarono a Parigi portandosi dietro i capelli delle sorelle e fecero una tale fortuna che tutto il paese si decise a seguirli. La montagna italiana era fatta così, si inventava i mestieri più incredibili per far fruttare le stagioni morte. L’ industriosità montanara era nomade e figlia dell’inverno. Ogni valle aveva i suoi mestieri, garantisce Fredo Valla, scrittore, regista e romantico conoscitore del mondo occitano attorno al Monviso. Nella Maira erano acciugai, bottai, sellai o suonatori di ghironda. In Varaita carbonai, ombrellai, arrotini; e molti finirono tassisti a Marsiglia. Val Chisone sfornava maître d’ hotel; quelli della Valle Stura sapevano far ballare le marmotte. I biellesi della Valle Cervo costruivano cattedrali e imbastivano cappelli di coniglio per gli ebrei ortodossi. Da quando scoprì l’arte delle parrucche, Elva ebbe due raccolti l’anno: quello del fieno e quello dei capelli. Il secondo era un safari in piena regola. Gli uomini partivano alla fine di agosto, dopo la fienagione, erano almeno cinquecento, e nella stagione fredda si sparpagliavano in mezza Italia per la seconda falciatura. E così a Elva da settembre alla fine di aprile restavano solo le donne. I maschi tornavano entro il 12 maggio, festa del patrono Pancrazio e giorno del mercato dei capelli. Arrivavano carichi come muli. Uno non ci pensa, ma i capelli pesano come piombo. Un sacco arrivava fino a cinquanta chili ed era così prezioso che i piemontesi viaggiavano nel terrore di essere derubati. Per questo si spostavano insieme, e di notte si facevano turni di vedetta. Quando vengono restaurate vecchie case quassù, si trovano spesso capelli dimenticati negli interstizi dei muri. Valevano così tanto che le donne li nascondevano, attorcigliati e legati come mazzetti di banconote. Persino l’oro costava meno: con dieci chili ben trattati di capelli potevi comprarti un appartamento. Il tipo biondo-cenere valeva ancora di più, perché poteva essere imbiancato e venduto ai lord inglesi per le loro parrucche da cerimonia.

Tratto da Paolo Rumiz, Repubblica, 2008.

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